- “Firmerei un’intesa con Israele, anche per uno Stato unico, ma con uguali diritti per tutti”. La proposta lanciata la scorsa primavera da Hussein al-Sheikh, il vice di Abu Mazen, secondo cui Israele dovrebbe inglobare i territori palestinesi – Gaza e Cisgiordania – riconoscendo ai loro abitanti pieni diritti di cittadinanza, può sembrare una provocazione. Ma è, in realtà, una cartina di tornasole: un modo per smascherare le contraddizioni profonde di un conflitto che si trascina da decenni, con un equilibrio sempre più precario tra occupazione militare, apartheid civile e paralisi diplomatica.
Oggi la prospettiva dei due Stati è ridotta a una formula retorica buona per i comunicati stampa, ma svuotata di qualsiasi concretezza. I fatti sul terreno parlano chiaro: l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, l’assedio prolungato su Gaza, la frammentazione politica e territoriale del popolo palestinese rendono quasi impraticabile l’idea di uno Stato palestinese sovrano e contiguo. A questo si aggiunge una crescente frustrazione tra le nuove generazioni arabe e palestinesi, che vedono negati i propri diritti basilari: libertà di movimento, di partecipazione politica, di accesso a risorse e servizi.
In questo scenario, la proposta del vice di Abu Mazen rappresenta un paradosso scomodo: se Israele non intende davvero permettere la nascita di uno Stato palestinese, allora dovrebbe almeno garantire l’uguaglianza giuridica a chi vive sotto il suo controllo. Ma sappiamo che questa ipotesi è vista da molti in Israele come una minaccia esistenziale, perché metterebbe in discussione l'identità demografica ebraica dello Stato. E allora?
Allora si apre uno scenario ancora più inquietante: a meno che Israele, infischiandosene del riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina da parte di molti Paesi occidentali, non stia perseguendo – consapevolmente o no – una soluzione ancora più drastica. Non una risoluzione diplomatica del conflitto, ma la scomparsa graduale del problema palestinese attraverso l’espulsione, la privazione di risorse, la separazione e il logoramento sistematico di un intero popolo. Un “genocidio diluito nel tempo”, senza camere a gas ma con restrizioni crescenti, umiliazioni quotidiane, isolamento internazionale.
Parole forti, certo. Ma quanto tempo si può ancora parlare di “conflitto” se uno dei due popoli ha eserciti, confini, appoggi diplomatici, mentre l’altro sopravvive senza Stato, senza diritti e spesso senza voce?
Il punto non è solo Israele. È anche l’Occidente, che per anni ha predicato soluzioni pacifiche mentre tollerava una realtà di dominio asimmetrico. Che ora si dice favorevole al riconoscimento della Palestina, ma continua a fornire armi e sostegno politico a chi occupa, bombarda, assedia.
In questo contesto, la “provocazione” palestinese è anche un grido d’allarme: o si apre finalmente un dibattito serio su diritti, cittadinanza, e autodeterminazione – o si rischia di assistere, in silenzio, a uno dei più gravi fallimenti morali del nostro tempo.
La domanda vera, oggi, non è più “due Stati o uno?”. È: può uno Stato che si proclama democratico continuare a negare la democrazia a milioni di persone che vive sotto il suo controllo? E cosa resta della nostra coscienza civile se non sappiamo rispondere?