La Tigre Addomesticata
a cura del prof. Alfredo A. Padalino
C’è una strana malinconia, oggi, nel vedere Sandokan rincorrere la giungla mediterranea fra Lamezia Terme, Tropea, La Selvotta di Roma e Cinecittà. Una malinconia che assomiglia a quella che coglie chi, come me, continua a preferire la vittoria sporca e irripetibile del 1982 al trionfo patinato di Berlino 2006. Non è nostalgia: è la consapevolezza che l’autenticità non si gira in esterna, non si compra a budget, non si trucca con effetti digitali. L’autenticità, o ce l’hai o non ce l’hai. E quando manca, la si avverte immediatamente, come quando ascolti un’orchestra perfetta ma senza anima.
Salgari, che dall’alto del suo appartamento torinese non vide mai la Malesia, aveva però la bussola segreta degli scrittori veri: l’immaginazione come cartografia morale. Vedeva oltre le carte nautiche, intuiva il pulviscolo di libertà che si agita fra gli oppressi, e da lì ricavava romanzi che sono stati i primi best seller del nostro Paese. Ecco perché il suo Sandokan era credibile pur senza la giungla. Non descriveva un luogo: evocava un mondo.
Quando Sergio Sollima portò la Tigre della Malesia in televisione nel 1976, col volto magnetico di Kabir Bedi, compì un piccolo miracolo civile. In tempi di piombo e di sbornia consumista, offrì un eroe terzomondista che somigliava a un Garibaldi tropicale, un Che Guevara in versione marinaresca. Un ribelle con la camicia aperta, capace di farci dimenticare per un istante la tristezza del presente italiano. Non era intrattenimento: era un invito all’immaginazione politica.
E oggi? Oggi ci accontentiamo della giungla ricostruita in studio, dell’esotico di prossimità, dell’avventura a chilometro zero. Nulla di scandaloso, per carità: anche questo rientra nella grande liturgia dello spettacolo contemporaneo, quella che trasforma ogni epica in un set e ogni set in un prodotto. Ma resta il sospetto che, nel tentativo di “internazionalizzare” tutto, abbiamo finito per sfilacciare il mito, allevandone una versione docile, più turistica che selvaggia.
La nuova edizione di Sandokan non è un tradimento: è un sintomo. Il segno di un Paese che riproduce i propri eroi senza interrogarsi su ciò che li rendeva tali. Come se bastasse un’ambientazione, una tigre in formato digitale, un cast multietnico per convocare lo spirito ribelle che animava la pagina di Salgari e lo sguardo di Kabir Bedi. Ma la ribellione non si replica: si vive, si rischia, si perde, si riconquista.
Forse, allora, la vera domanda non è come possiamo approvare questo remake. La vera domanda è un’altra: siamo ancora in grado di riconoscere un eroe quando lo vediamo?
O ci restano solo copie sbiadite, come figurine lucide che non profumano più di colla, come mondiali vinti con impeccabile geometria ma senza quella scintilla irrazionale che, nel luglio dell’82, fece tremare un Paese intero?
Il mito di Sandokan — quello vero — resta altrove: in un altrove che non è geografico, ma interiore. E che nessun set, per quanto ben pettinato, potrà mai ricostruire.


