L’Italia di Cerno & Vannacci — ovvero: l’Arte del salto della Quaglia
a cura del prof. Alfredo A. Padalino.
- Molti di noi nascono Vannacci: pieni di certezze primitive, scolpite nella roccia come simboli di un’identità che non tollera incrinature. Cresciamo in un mondo a linee rette, dove il dubbio è un intruso e la complessità un sabotaggio del buon ordine militare. Poi, quasi per grazia laica, ci si migliora: si scopre che esiste l’altro, che l’ambiguità non è una minaccia, che la realtà non è un poligono di tiro ma un teatro di sfumature. Alcuni si spingono oltre: diventano fluidi — nel pensiero prima ancora che nel genere — e approdano persino ai vertici della stampa progressista. È il caso di Tommaso Cerno, enfant prodige de "L’Espresso", diventato poi senatore del Partito Democratico come testimonial dell’Italia possibile, aperta, inclusiva.
Ma in questo Paese, dove ogni evoluzione convive con la tentazione della regressione, la metamorfosi virtuosa non dura mai troppo. La traiettoria di Cerno, infatti, si piega, si torce, assume forme inattese. L’ex volto della sinistra riformista diventa improvvisamente critico della legge Zan, come se un cortocircuito ideologico avesse spento la bussola del progressismo. Un passo indietro? Un cambio di scenario? Più semplicemente: la prima avvisaglia di quel trasformismo che è la vera cifra del nostro ecosistema politico-mediatico.
Da lì, la parabola accelera. Nel giro di pochi anni, l’uomo che dirigeva "L’Espresso" si ritrova alla guida de "Il Tempo", quotidiano storicamente allineato alla destra romana. E non finisce qui: dal 1° dicembre assume la direzione de "Il Giornale", completando così il suo personale pendolo ideologico — dal centrosinistra illuminato alla destra più classica — con l’agilità di un atleta olimpico del cambio di casacca.
Ma il vero capolavoro, quello che lo consegna alla storia come primatista assoluto del salto della quaglia, arriva quando approda nel cast di "Domenica In" come co-conduttore. È un fatto senza precedenti: mai, nella storia della televisione italiana, un direttore in carica di un grande quotidiano della concorrenza è stato chiamato a intrattenere il pubblico domenicale del servizio pubblico. Un cortocircuito culturale che supera persino le acrobazie della politica. In altri Paesi sarebbe impensabile: in Italia diventa un titolo di merito, una conferma dell’instabilità come stile di vita, dell’identità come guardaroba stagionale.
C’è chi celebra questa traiettoria come prova di libertà intellettuale. Ma la libertà non è ubiquità. La libertà richiede disciplina, coerenza, fatica del pensiero. Il trasformismo, invece, vive di visibilità, convenienza e un’irresistibile attrazione per la ribalta. L’Italia conosce bene il fenomeno: è la stessa dinamica che ha svuotato il Parlamento di credibilità, trasformandolo in una sala da ballo dove il valzer delle appartenenze non conosce pause.
Il giornalismo, che dovrebbe essere contropotere, si ritrova così ridotto a specchio narcisistico del potere stesso. E Tommaso Cerno — con la sua progressione da "L’Espresso" a "Domenica In", passando per "Il Tempo" e "Il Giornale" — ne diventa l’emblema perfetto: l’uomo per tutte le stagioni, per tutte le direzioni, per tutte le narrazioni. Il simbolo di un Paese dove si nasce Vannacci, si cresce Cerno, e si finisce a fare intrattenimento nazional-popolare senza mai chiedersi se la parola “coerenza” significhi ancora qualcosa.


