Per alcuni anni ci siamo ubriacati di globalizzazione. Tutto andava globalizzato, tutto doveva finire in una sorta di contenitore comune, perché così avremmo animato l’economia, mettendola anche al riparo dai pericoli di rallentamento o peggio di recessione. Sappiamo come sta finendo la storia. Nel settore bancario soprattutto si è avuta una involuzione deleteria, posto che è stata fatta incetta di sportelli di banche popolari a beneficio dei grandi gruppi del Nord, senza avere come riscontro una migliore assistenza, attraverso servizi più qualificati e una più elastica concessione del credito. Quando andavano in porto queste operazioni di fusione, di incorporazione e, detto facile facile, di acquisto, alcuni hanno tentato di affermare che l’operazione avrebbe provocato solo vittime, perché alle banche scomparse difficilmente sarebbe subentrato un sistema migliore di quello prima esistente, se non per la considerazione che i cervelli della grande finanza e del credito stanno ancora al Nord e ragionano, perciò, con la testa settentrionale. Il risultato è che il sistema bancario meridionale è andato in frantumi, è a pezzi. E a dirlo sono quelli dell’importante sindacato bancario della FABi, che in un convegno-studi tenuto a Palermo (sul tema:” Alla conquista del Sud, il risiko bancario sulle spalle del Meridione”), hanno denunciato cifre da capogiro in termine di perdite su tutti i fronti. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, ha detto il segretario generale Lando Maria Sileoni, le grandi fusioni bancarie hanno determinato una perdita al Sud di 35mila posti di lavoro nel settore del credito. Il numero di banche con sede nelle regioni meridionali è passate da 313 a 148.
Il costo del denaro risulta di gran lunga superiore a quello praticato negli istituti di credito del Nord, insieme al crescere della divaricazione dei margini di erogazione del prestito, a beneficio delle fasce più ricche del Paese, che certamente non sono quelle del Sud. I grandi gruppi si sono buttati a capofitto nelle acquisizioni degli sportelli delle banche locali perché pensavano che, presidiando altre fette di territorio, avessero la possibilità di trovare un più agevole inserimento nelle economie locali. Non è stato così, perché si è fatta una politica del credito puntando ossessivamente solo sul fattore rischio, eludendo quelle professionalità, quella fantasia e moralità che non stanno in alcun bilancio, se non in quello della coscienza professionale. Così ora assistiamo al processo inverso, nel senso che i grandi gruppi bancari vanno dismettendo quelle filiali ritenute superflue e che in tanti casi facevano doppione. E che il danno sia stato prodotto veramente è dimostrato dal tentativo di porre rimedio attraverso l’insediamento della Banca del Mezzogiorno, che dovrebbe praticamente occupare gli spazi delle vecchie banche popolari, incentivando in qualche maniera il credito cooperativo, che sinora è stato il solo strumento che si è posto veramente e seriamente a sostegno della piccola industria, del commercio, dell’artigianato e della agricoltura.